Spesso mi interrogo sul futuro e mi chiedo cosa vorrò fare da grande. In realtà sono già grande e gli anni scorrono anche per me con la loro inesorabile regolarità; il trascorrere del tempo è l’unica certezza su cui possiamo contare. L’età non mi ha mai procurato nessuna [box] Content goes here[/box] particolare crisi e l’idea di invecchiare non mi ha mai spaventato. Forse perché riesco ad immaginarmi da vecchio, insieme al mio grande amore, soli, mentre i nostri figli sono altrove; ritornati in possesso di tutto quel tempo che la vita ci ha in qualche modo tolto. Quando mi faccio questo genere di domande penso a tante cose: al lavoro prima di tutto, a come andrà il mondo, a come sarà tra trent’anni, quando sarò più vecchio. Ci saranno i boschi? Più o meno di oggi?
Quando mi interrogo sul mio futuro mi domando se il lavoro sia davvero una parte così importante di noi stessi. Penso di si, ma quale tipo di lavoro? Quello che ci da in qualche modo, fama, che ci rende famosi, riconosciuti, ricchi, rispettati? O il lavoro può essere semplicemente inteso come un’attività importante della nostra vita, ma non l’unica, che ci permette di vivere con dignità. E’ più importante vivere o lavorare?
Mi tornano in mente le estati trascorse in campagna con i nonni: con lo zio Giuseppe andavamo a prendere il latte. C’era anche mia cugina Anna. Ricordo bene che in campagna il tempo era scandito dalla luce del sole, e così anche i ritmi e le sensazioni che vivevo. La mattina la temperatura era sempre fresca, e tutto ti incoraggiava a lavorare o giocare.
Avevi sempre voglia di fare qualcosa. La sera calava il sole e l’aria rinfrescava dalle fatiche e dal caldo torrido della giornata. Mi sedevo sul bordo della terrazza in cemento senza ringhiera e guardavo il cielo, e facevo un pensiero ai miei genitori che si trovavano in città a lavorare. Ricordo bene quei momenti e quel senso di pace incredibile che tutta quella semplicità era in grado di dare. La sera cenavamo all’aperto, sotto una tenda a righe bianche e blu, tesa alla meno peggio dalla scala che portava alla soffitta adibita a fienile a dei bastoni irregolari conficcati nel terreno. Bastava così poco per creare uno spazio che avvicinasse tutti noi. Il nonno si sedeva a capotavola ed era il primo ad essere servito con orgoglio dalla nonna. La zia Maria si infuriava se gli rubavo il suo pane ma lo facevo sempre lo stesso. Sapevo che mi voleva bene e ricordo che il pomeriggio dopo pranzo mi invitava sempre ad andare nel fienile dove schiacciava un pisolino sul fieno e mi regalava un paio di quelle caramelle al selz gialle e arancioni.
Oggi la terrazza non esiste più e nemmeno il telo a righe bianche e blu.
Mi chiedo spesso se non sia meglio fare il contadino.